Iniziamo dai nostri tempi, quelli in cui la tecnologia ha permesso agli artisti di manipolare fisicamente la luce piuttosto che rappresentarla su una tela.

Dunque è storia recentissima dato che le prime sorgenti luminose adatte ad un uso creativo appaiono nella prima metà del XX secolo.

La prima opera di luce in senso letterale è nata da un caso di serendipità, un incontro casuale con effetti dirompenti: la visita del fotografo di LIFE, Gjon Mili, a Pablo Picasso nel suo studio di Vallauris, in Francia meridionale, nel 1949.

In quell’occasione Mili fece vedere al pittore alcuni esperimenti realizzati negli anni precedenti attaccando un piccola lampadina alla scarpetta di una pattinatrice e fotografandone la scia luminosa come un disegno nello spazio.

Picasso non ci stette molto a pensare: prese una torcia e cominciò a tracciare nell’aria minotauri, fiori, figure umane mentre il fotografo, nella stanza buia, lasciava aperto l’otturatore della sua macchina illuminando l’artista, con un flash laterale, un attimo prima di terminare lo scatto.

In questo modo si poteva vedere sia il disegno che la figura di Picasso che lo concludeva. Naturalmente nessuno dei due aveva idea di ciò che sarebbe uscito fuori se non dopo la stampa delle foto…

L’idea della fotografia che riesce ad immortalare un disegno di luce oggi è diventata una pratica molto diffusa tra artisti e dilettanti. C’è che delinea corpi umani lasciandone solo le sagome vuote, chi trascina bacchette luminose

… e chi, come Janne Parviainen, percorre, con certosina maniacalità, ogni angolo di un ambiente per ricrearlo con la luce!

All’Università di Braunschweig, in Germania, hanno montato, invece, dei led colorati su un’aspirapolvere automatica – sapete, quegli strani oggetti che gironzolano da soli rimbalzando di parete in parete – e ne hanno fotografato tutto il percorso.

Loro studiavano l’algoritmo che regolava i movimenti del robot ma poi ne è uscita fuori una straordinaria serie di immagini di grande suggestione. Anche gli scienziati tedeschi hanno una sensibilità artistica 😉

Ma torniamo al 1949. Nello stesso anno Lucio Fontana (sì, proprio quello delle tele sfregiate) stava lavorando con le lampade di Wood, un tipo particolare di sorgente fluorescente priva di polveri interne al tubo inventata nel 1913, in grado di produrre la cosiddetta luce nera.

Ma come fa la luce ad essere nera? Beh, in realtà la luce non ha nessun colore, è invisibile. Noi non vediamo la luce ma gli oggetti che illumina. Anche quando ci sembra di osservarne il flusso (come nella foto in apertura o in queste qui sotto) in realtà stiamo vedendo il pulviscolo illuminato dalla luce.

L’artista James Nizam ha provato persino ad incanalare in una stanza questi potenti raggi solari moltiplicandoli con dei piccoli specchi per creare delle magnifiche immagini fotografiche.

Ma nel caso della luce nera la cosa curiosa è che non illumina nulla. Anche se è accesa resta tutto nero, a parte i nostri denti e l’eventuale camicia bianca

Una lampada che emette ultravioletti, onde elettromagnetiche che non fanno parte dello spettro visibile dall’uomo ma che possono generare una riflessione visibile da parte di alcuni materiali, specie se ricoperti da vernici fluorescenti.

Ebbene Fontana realizzò un “Ambiente spaziale a luce nera” in cui fluttuava un oggetto amorfo luminescente in una camera buia ma, in realtà, illuminata a luce nera.

Di lì a poco l’idea fu ripresa da Gianni Colombo con il suo Spazio elastico (1966), una camera illuminata a luce nera e attraversata da un reticolo tridimensionale di fili fluorescenti che alcuni piccoli motori facevano scorrere lentamente in varie direzioni.

L’ambiente sembrava comprimersi e dilatarsi intorno all’osservatore facendogli perdere il senso delle dimensioni e dell’orientamento. Certo, noi siamo abituati alla computer grafica capace di generare spazi fluttuanti in 3D molto più coinvolgenti, ma per l’epoca la cosa funzionava abbastanza bene.

Anche la luce di Wood è stata successivamente utilizzata da tanti artisti .

Una delle applicazioni più emozionanti è quella del teatro nero, spettacoli di danza illuminati con luce ultravioletta in cui i corpi sono visibili solo per le porzioni con costumi fluorescenti.

Ma facciamo un passo indietro e riprendiamo di nuovo Fontana. Sì perché il suo ambiente spaziale è nulla rispetto ad un’opera che concepirà nel 1951 e che costituisce davvero un capolavoro della light art. Mi riferisco al Segno luminoso , sospeso sulla scalone della Triennale di Milano.

È un tubo di neon lungo circa 130 metri aggrovigliato come uno scarabocchio di luce fatto in aria. Potremmo considerarlo una versione materiale e permanente dei disegni luminosi di Picasso.

Per la sua tangibile immaterialità e per il richiamo piuttosto pop alle insegne pubblicitarie, il neon è diventato presto il materiale preferito dagli artisti concettuali dagli anni Sessanta in poi.

Sofisticato e cerebrale è, invece, il lavoro al neon di Mario Merz.

La sua serie di Fibonacci, una progressione numerica nella quale ogni numero è la somma dei due precedenti, risplende nel buio raccontando la storia del rapporto tra matematica e bellezza.

Ma la neon art non è solo numeri e parole. Ecco alcuni esempi di cosa si può fare con queste versatili sorgenti luminose.

Altra cosa sono i tubi fluorescenti (chiamati impropriamente neon, ma che con i veri tubi al neon non c’entrano nulla): modulari, cilindrici e non modellabili, si prestano ad utilizzi più rigorosi e minimalisti come quelli di Robert Irwin.

Nelle installazioni di Dan Flavin le lampade misurano lo spazio dando ritmo e colore. Le superfici illuminate diventano, così, parte dell’installazione assumendo una consistenza quasi immateriale.

Perfetto per un ambiente ad alto contenuto spirituale come la Chiesa Rossa di Milano nella quale Flavin ha lasciato la sua ultima installazione.

Un altro mago delle superfici luminose è James Turrel. Nei suoi grandi ambienti colorati le sorgenti luminose sono spesso nascoste in modo da proiettare il flusso in modo mirato e trasformare in luce l’intera architettura.

Ogni parete, ogni foro nel muro, riflette o trasmette la luce alle superfici adiacenti. Il risultato? Fiabesco!

 

Negli ultimi anni la tecnologia ha offerto agli artisti nuove sorgenti luminose da utilizzare nei modi più disparati. I LED, in particolare, essendo potenti ma miniaturizzati, sono stati scelti per grandi interventi di land art come per installazioni adatte agli interni.

Uno degli ultimi ritrovati è l’OLED, una superficie luminescente basata sullo stesso principio del led, ma ampia e flessibile.

Una delle installazioni più suggestive è quella di Paul Cocksedge fatta di fogli che sembrano portati via da una folata di vento (non a caso l’opera si chiama “Bourrasque“).

Questa, però, non è un’installazione qualsiasi ma un progetto all’interno di un fantastico evento di luce, la Fête des Lumières, che si tiene annualmente a Lione, in Francia, dal 5 all’8 dicembre.

Tutta la città, invasa da milioni di visitatori, è animata da interventi luminosi di ogni tipo, dagli spettacoli di videomapping alle installazioni interattive.

 

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